Monday, May 7, 2007

6x6


Diane Nemerov è nata nel salotto di una buona famiglia di pellicciai newyorkesi, ha un fratello poeta ed un marito fotografo, lei ancora non sa cosa fare, a parte la moglie e la madre e l'assistente ai composti servizi di moda del consorte. Allan Arbus è però un marito innamorato di sua moglie e del suo mestiere: passa le giornate a fare reportage per l'U.S. army e le notti a spiegare a Diane il funzionamento di luci, pellicole e macchine fotografiche; lei lo ascolta sempre e sempre lo aiuta, sistema i fari, petttina le modelle, stira i vestiti e cambia le ottiche, apparentemente muta. il fatto è che a Diane piace fare foto, le piace talmente tanto che le formose giovani donne coperte di visone che entrano nel suo studio le sembrano troppo ovvie, pane di tutti i giorni, sicuramente non un soggetto "speciale" e un pò asettico, anche. il tempo passa e la Arbus non solo supera marito e fratello in popolarità ma viene chiamata ad insegnare in diverse scuole e riceve una enorme borsa di studio dalla fondazione Guggheneim diventando per tutti "la fotografa dei freaks", nomignolo restrittivo ma necessario dato che i suoi scatti più famosi ritraggono infatti emarginati, gente del circo, prostitute e storpi. A trent'anni dalla sua morte qualcuno pensa di dedicarle un film, forse per allargarne il profilo oltre i bordi di una foto "strana", un racconto poco fedele ma molto ispirato della sua vita e della sua passione, senza sicurezze biografiche ma sincero nelle intenzioni e nella restituzione della fame di immagini che sicuramente attanagliava Diane, sempre divisa tra il suo mondo queer e la rigida sala di posa. Il regista di Secretary ci racconta la storia di una donna troppo stretta nelle spire di una vita ordinaria che non le appartiene, talmente stretta che il suo desiderio di fotografare le cose si nasconde per un pò per piombare nella sua vita all'improvviso e tutto insieme, come qualcuno che aprendo la porta non riesca a tenere gli occhi aperti in pieno sole; a Diane piacevano le foto medio formato, nel film la si vede portare a tracolla una rolleiflex marrone, impugnarla con cautela ma fermamente, guardare piano dentro il pozzetto e cercare la destra e la sinistra che, in quel caso, sono invertite, metterci talmente tanto per scattarne anche una sola che lo spettatore medio si chiede se ci stia dormendo sopra. ecco, non sta dormendo, sta cercando: il mezzo è lento ma permette di pensare, dentro quel pozzetto c'è l'occhio umano e la sua perfetta visione quadrata, precisa, senza sbavature. curiosa tutta questa perfezione per riprendere una città, una persona, un oggetto che di imperfezione sono pieni, com'è ovvio e umano che sia. Lei prende in braccio la rolleiflex e noi pensiamo che stia per succedere qualcosa di importante ma non di intoccabile, di magico ma raggiungibile, qualcosa che ha talmente a che fare con la realtà ed il modo in cui la vediamo che diventa necessaria un pò di concentrazione, un pò di silenzio, qualcosa che non ha nulla a che fare con la battaglia analogico-digitale ma molto di più con noi stessi e il tempo che dedichiamo a guardare le cose, in generale. la fotografia non è un'operazione riflessiva, non sempre, non importa che sia lenta o veloce, importa come siamo noi, cosa vogliamo toccare o nascondere, cosa decidiamo di mostrare o corrompere, quanto siamo disposti ad aprire gli occhi davvero, per far entrare quello che guardiamo e ributtarlo fuori masticato e capito, forse.

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